Scritture critiche: Gabriella Montanari e il teatro dell'io
Si chiude da sé (Gilgamesh, 2016) è probabilmente l’opera di maggior rilievo nella carriera di Gabriella Montanari e comunque quella che segna una svolta tra le sillogi composte di solo testo e quelle costituite da testo e fotografie. Schematicamente, l’opera si potrebbe definire come uno psicodramma dove il protagonista (l’io poetico) si trova a dover mediare tra le proprie pulsioni e gli imperativi del mondo esterno, cioè le richieste dell’es e quelle di un super io che viene spesso apostrofato nelle varie liriche come “tu”, la seconda persona di un dialogo ipotetico e fantasmatico. L’arcinoto schema freudiano delle tre istanze psichiche (io, es e super io) qui può infatti tornare utile a inquadrare un dramma pronominale dove solo l’io e il tu vengono al proscenio nel dialogo, mentre la terza persona raccoglie in assenza tutte le altre figure evocate, pescate nei fondali della memoria e del desiderio.
Si tratta insomma di un dramma interiore dove l’io poetico interpella, sfida e irride la propria coscienza morale, o super io, mentre nel contempo convoca le pulsioni dell’es, incarnandole in scenari conflittuali, dove la memoria organica si scontra con quella culturale, in una ripetizione rovesciata e liberatoria di quel processo di liquidazione del complesso edipico che, secondo l’ortodossia freudiana, segna la fine della prima infanzia. Questo schema interpretativo, che mette in gioco il reale, il simbolico e l’immaginario, trova peraltro un riscontro caricaturale nella struttura del nostro testo, in cui l’iperrealismo dei fotogrammi fa da argine e segnavia alle fantasmagorie oniriche che prendono corpo nella versificazione libera, ipermetrica e fluviale che dall’inizio caratterizza il poemetto: “stavi immobile come un sogno stretto tra il torpore dei polpacci e/l’alba, ripetevi una frase morsicata, udita in placenta o forse prima/un mantra polare, di quelli che imbambolano il cobra che è in noi.” (24)
Costituito da transiti e stazioni, ma dedicato paradossalmente “a chi sceglie di non esser di passaggio”, Si chiude da sé rappresenta una resa dei conti della poeta con se stessa, con i propri fantasmi e con le proprie competenze e vocazioni professionali, quella della scrittura e quella della fotografia, che ora vengono convocate materialmente a costituire lo scenario rituale di una tragicommedia onirica di primordine e di grande impatto emotivo, che ha tutti i crismi di una svolta poetica ed esistenziale. Si chiude da sé è la più surreale delle opere di Montanari dove, con un po’ di audacia, si può rinvenire nel titolo stesso un palindromo di quell’es, cioè di quello scenario composito di luoghi e figure, passaggi e porte che si aprono e si chiudono senza chiederci il permesso, magari prendendoci in mezzo le mani.
Nella sua breve avvertenza metapoetica, del resto, l’autrice ci indica come leggere questa rapsodia e fare questo viaggio periglioso, condotto sul filo dell’alta tensione fra parola e immagine: “Stazioni, binari, sale d’attesa, aeroporti, autobus, metropolitane. Luoghi d’incontro/scontro, di ritrovi e perdite, di strappi che solo le parole – annotate su riviste, libri, scontrini e carte d’imbarco – tentano di ricucire in un viaggio lungo quanto l’attesa di un abbraccio.” Un’avvertenza cui fanno eco l’ultimo insensato botta e risposta fra Regina e Re, poeta e amante, io e super io, o come altro si preferisce, in una ripetizione stilizzata del dramma edipico e in una epigrammatica riapertura del circolo ermeneutico-esistenziale: ♕ - «Tutto questo giro per?» ♔ - «Ricordarti di innaffiare sempre il frutto della passione.» (103) Nonché l’ultimo esergo da C.G. Jung: “un uomo che non è passato attraverso l’inferno delle sue passioni,/non le ha superate.” (108)
Il super io, qui chiamato al proscenio, è una istanza composita in cui domina la figura del padre, che era già stata più volte evocata, con un misto di scherno e irriverenza, nelle precedenti prove poetiche di Montanari, ma in maniera occasionale e disordinata, come d’altronde capitava a tutte le altre comparse nel teatro onirico dell’autrice. La figura parentale si trovava per così dire disseminata nei vari testi e tale disseminazione era speculare a quella dell’io poetico, la cui inventiva originale e straripante non trovava però ancora un centro stabile e una prospettiva definita. Doveva pertanto fare ricorso a espedienti occasionali seppure efficaci, come l’uso dell’abbecedario nell’eponima opera precedente (Abbecedario di una ex buona a nulla, Rupe Mutevole, 2015), a guisa di schemi o moduli d’ordine dell’appercezione e dell’espressione dei propri vissuti, sempre sospesi tra il reale e l’immaginario, tra una robusta memoria visiva e una ancor più esuberante deriva onirica. Ora invece, come si è detto, Montanari decide di fare interagire i due linguaggi della sua arte: il verbale e il fotografico, la parola e l’immagine, materializzando ed esplicitando quella figura dell’ecfrasi che ha presieduto sempre in effetti alle sue composizioni, quand’anche solo verbali. Così facendo, ella costruisce e arreda uno spazio testuale che non è più soltanto letterario e bensì intermediale, ricavandovi un luogo (teatro o tribunale) sufficientemente strutturato e predisposto alla convocazione dei propri indocili fantasmi, per una seppur provvisoria resa dei conti. Il viaggio che Montanari intraprende in Si chiude da sé costituisce in effetti un periplo del mediterraneo di sé stessa (con al centro ovviamente quell’Adriatico che già apriva la raccolta precedente e quella Romagna che le è insostituibile madre e matrigna). L’itinerario ha infatti l’andamento circolare del nostos omerico, con partenza e arrivo a Ravenna, su vari mezzi di trasporto e con occasionali, provvisori compagni di avventura, larve di amanti, fossili della memoria e fantasmagorie del desiderio. La messa in scena riguarda occasioni perse, incontri mancati o inappaganti, malumori e malintesi, effimeri entusiasmi, e insomma tutta l’umana oscillazione fra il dolore e la noia. Ma anche e soprattutto riguarda la discesa agli inferi del proprio inconscio: una vera e propria notte di Valpurga, una resa dei conti dove lo spudorato candore e il feroce umorismo si compongono in una tragicommedia che è nel contempo anche uno studiato esame di coscienza in versi, un rigoroso esercizio psicosomatico insomma, una grottesca pantomima o una specie di mantra cresciuto a dismisura, una litania umorale bisbigliata al limite fra versi ipermetrici e prosa ritmica. Una via di mezzo (tanto per scomodare grandi firme) fra la Via in giù di San Giovanni della Croce e la Veglia di Finnegan di James Joyce: una via crucis di linfa, carne e sangue, le cui stazioni sono contrassegnate da tagli fotografici ingranditi e da distici di un dialogo insensato (fra un re e una regina che giocano una infinita partita a scacchi in cui sono saltate tutte le regole): «Non mi abbracci?»/- «Davvero? Il frutto della passione ha attecchito dalle tue parti? Da non crederci…” (22). Oppure: «Non me lo dai un bacio?» - «Ce ne fosse una che sorride alle casse dell’Esselunga…» (33) A sottolineare l’indifferenza, l’incuranza e la distrazione come caratteri della post-umanità odierna.
L’intero potere esplosivo dell’istantanea e della messa a fuoco di una qualsivoglia sineddoche dei nostri vissuti, nel dettaglio fotografico, quel potere che ha messo a soqquadro la storia di tutte le arti (seppure in modi e con tempi diversi) a partire dalla metà dell’Ottocento, si trova ora posto a servizio della storia personale della poeta e della sua memoria organica, allo scopo di processarne e visualizzarne i resti fossili, i nodi irrisolti, gli ingorghi affettivi e così riconfigurare la mappa del suo immaginario sulle cicatrici ancora fresche dei traumi subiti e delle carezze mancate, a partire, come si diceva, dalla mano del padre, ancora una volta dio di una creazione zoppa, deforme, piantata in asso: veicolo di tutti i possibili incontri con l’Altro, rimedio-veleno degli amori andati a male, radice dei blocchi affettivi, delle carezze che hanno mancato il segno, delle difficoltà di essere compagna, amante e madre. Dal punto di vista strutturale, che è quello che più ci riguarda, occorre osservare che è proprio l’istantanea esplosività del dettaglio fotografico, quella che Benjamin, a proposito del cinema, ha chiamato “la dinamite dei decimi di secondo” che modifica l’economia della nostra percezione, ed è proprio l’impietoso, chirurgico affondo dell’istantanea ad aprire qui i tunnel dell’inconscio, la rigida disposizione delle stanze della memoria, magari sfondandone le porte, dettando tempi e modi di un’esplorazione tanto rischiosa quanto necessaria per la maturazione umana e poetica dell’autrice.
Come s’è detto, Si chiude da sé è un testo strutturato in modo radicalmente diverso rispetto al precedente Abbecedario, come se la ex buona a nulla avesse deciso di mettersi ora in scena e a nudo, corpo e anima, gesto e parola, in una sorta di spazio ibrido tra lo studio dello psicanalista, il tribunale del popolo e il teatro della crudeltà. Questa silloge, per la interazione costitutiva tra foto e versi, si può infatti definire come un libro d’arte alla rovescia, perché qui è ancora la parola a tenere banco, evocando le immagini da un lato e dall’altro invocandole, come se non potesse bastare a se stessa e al compito che si è preposta: lo scioglimento di un ingorgo esistenziale attraverso la sua messa in scena onirica. In questo senso la sua composizione è esplicitamente retta dalla figura dell’ecfrasi e mette in evidenza lo spaesamento strategico dell’invenzione, contesa tra la parola e l’immagine, nell’ambiguo processo (accusatorio e confessionale) intrapreso dall’io poetico. L’itinerario di cui qui si tratta sembra proprio avere dunque la doppia valenza, conoscitiva e catartica, dei viaggi iniziatici, mentre le liriche che lo scandiscono rimangono racchiuse nella cornice fotografica composta da una veduta a forte contrasto della stazione di Ravenna, all’inizio, e da quella di una maniglia di scompartimento in primo piano con su scritto “si chiude da sé”, alla fine. E’ “un periplo monotono e ipnotico quanto basta per diventare nenia. Sonnolenza allucinata tra una tappa e l’altra.” (13) In un’atmosfera cruda e magica, vagamente incestuosa e lividamente surreale, tra le porte dei mezzi di trasporto utilizzati che sono anche quelle delle stanze semichiuse della casa della Memoria. Se la cornice esterna e la scansione delle sezioni è affidata a fotogrammi, il testo si giova poi anche di una impalcatura numerologica, quasi a voler sottolineare la ritualità di questa messa a nudo del proprio esserci, e l’ambiguità intrinseca del processo accusatorio-confessionale. L’esatta impalcatura cabalistica (9 sezioni contenenti ciascuna 9 poesie, tutte di 9 versi) e l’iperrealismo fotografico della cornice, costituiscono infatti da un lato gli argini del flusso di coscienza e dall’altro lo mettono in evidenza per contrasto.
Il tutto intercalato, come si è detto, da assurdi reparties all’inizio di ciascuna sezione fra i due fantomatici re e regina di una surreale partita a scacchi: “- «Non mi abbracci?»/ - «Davvero? Il frutto della passione ha attecchito dalle tue parti? Da non crederci…” (22) Dialogo tra sordi o folli, maschere di un io diviso e nomade: “- «Non me lo dai un bacio?»/- «Ce ne fosse una che sorride alle casse dell’Esselunga…” (33) In un ricorrente, fantomatico, mai pacificato confronto con le figure maschili: padre, marito o amante: “sarai padre prefabbricato, marito insabbiato, uomo dal fiato monco/e io già rido, dal basso, dove la terra m’insegna l’attesa.” (24), “è a te che chiederò la verità sugli incesti perpetrati con candore”. (54) In un va e vieni continuo tra micro e macrocosmo: “sai quella rabbia letargica che prude sotto la pelle come un sisma/…non cederò alle moine della lava né alle pastosità della bile grassa./resto con un pugno di lucciole in mano, effimere schegge di noi che ci spegniamo.” (28) Nella versione surreale di un disagio esistenziale proiettato in dimensione biogenetica: “murata nel bozzolo respiro la chimica dei distacchi” (38). L’intero iter accusatorio-confessionale contiene dei passi invero memorabili come questa struggente, umoristica, feroce preghiera al terribile fantasma del padre-amante, ormai vecchio impotente, prossimo a confondersi con la terra natia e a sprofondare nei suoi acquitrini:
“…addolcito come una silhouette di moscerino dimenticata nel mosto ….
dove li hai ingabbiati i riccioli? miei compagni di dita quando ti avevo tra quelle labbra, nido di assurdi pidocchi, cespo di vicoli, binari e battigie dove ancora mi perderei. te la racconto questa terra rubiconda che mi entra in circolo senza fare baccano,
tu risvegliami un paio di quadri sfuocati, dammi la bellezza che ti sei tenuto in tasca o almeno prestamela, non rubo più vite senza chiedere il permesso.
non mi riconosco se non è il tuo bulino a darmi e togliermi forma.” (58)
Un fantasma che rimane il protagonista del doloroso quanto poeticamente fecondo trauma primordiale (“posso lacerarmi questa vulva e le altre in gestazione, rendendole crune di ogni palo piantatomi dentro dall’orco, ma il tuo ago resta acciaio, capace di fiorire e generare fiabe”: 65), capace di trarre fuori da “ogni strato di dolore… un coma poetico/con lampi d’irriverenza e matrimoni illogici tra parole etero” (66) Fino a questa oscena, incestuosa e tenerissima scena madre di un ingorgo biopsichico, matrigna di un desiderio destinato a non trovare mai il proprio oggetto: “mi sa che stasera gongolo, con la densità di una nana a corto d’arti/…ora mi stendo così mi annusi, là dove la sterpaglia si è fatta serra/e il tuo seme vi sguazza come un bambino rapito dal piacere del fango.” (74)
Il fantasma che si insinua, rendendoli malsani e grotteschi, in tutti i successivi rapporti erotici e familiari, come un’ombra nel volo di sguardi e di gesti di una vita, nella cura congiunta e auspicata dello sguardo, della mano e delle viscere che presiede a ogni gestazione e a ogni parto, sia esso biologico o poetico:
“potremmo arrotolarci in budelli di patata, diventare gnocchi, poi amido…
ma so che ti terrei la mano fino ad assimilarne gli enzimi e le speranze, in una stretta che non scuoce, sopra un vassoio di antiche libagioni….
niente profuma quanto un tuo sguardo appena partorito dal risveglio. bollono il sangue e gli umori, gli oceani e gli acquitrini che ho in ventre, ribolle una profezia di felicità. frigge la mano che ti accarezza dentro. (76)
La mano, propria e altrui, strumento di gesti (più o meno osceni), di colpi (più o meno bassi) e di carezze (più o meno candide), di scritti poetici e di scatti fotografici, più o meno riusciti. Cui si rivolge la preghiera della brava bambina, della donna indomita e della madre inadeguata in cui non si è mai spenta la speranza di un unisono:
“bella la mano che s’insinua e annusa, sfiora e disegna solchi,
è la tua mano portatrice di arancio, la spatola che liscia le mie vette …
balla la tua mano, incurante dei miei ritmi, sicura del suo tango…
[ma]
ascolta il canto delle dita ubriache, esaudisci la preghiera del ritorno. i fianchi conoscono la cocciutaggine. pende il premio dai tuoi polsi.” (76)
La preghiera che è bisognosa di una risposta e di una redenzione, in qualche luogo prima e fuori dal tempo:
“nel catrame tondo di una notte come questa vorrei forare uno spiraglio d’intesa e passarci dentro il filo della farandola di cui non ricordiamo più i passi. dormo lontana dalla tua impronta, fuori piovono iene incendiarie
e tu salvi la tua pelle di lichene dal mio tatto che non sa dire senza scorticare. riprendiamoci quei luoghi insabbiati da secoli di omertà,
soffiamo via la polvere dei malumori astrali, ascoltiamo i pianeti roteare ma facciamolo subito, prima che il vagito ceda al pianto
prima che un mannaro c’inquini la linfa. scivolami dentro. i vicini dormono.
l’alba avrà il sapore del nostro ultimo orgasmo. consumato a terra, custodito dagli dei.” (78)
Tutto ciò pur nell’odierno orizzonte planetario del disamore, in cui siamo tutti votati a mancarci per un soffio. E così si chiudono, smorfiati in un’unica complessa figura, il nesso dialogico di domanda e risposta, e quello narrativo di peripezia e riconoscimento, con un esilarate finale da Grand Guignol, dove riappare lo spettro paterno (tante volte smembrato e mai davvero ucciso), ospite inatteso, agghindato per l’occasione, per incontrarsi con la larva sfinita dell’amante, in una grottesca, surreale, corale e persuasiva resa dei conti:
“siedo al bancone di un pub con mio padre morto, colorito di tutto punto/Risuscitato per rimediare alla sua ultima beffa, mette una firma e io torno ricca./…E tu vai, col passo di maschera affranta, compare turiddu dall’occhio mozzato/È in un sogno allucinato, e strappato alla tana dei voleri rimossi, che in tutta pace/Prendo congedo, e ti accarezzo con la risolutezza dell’uovo che si schiude.” (108)
In questo finale la tensione drammatica e l’esuberanza espressiva di Gabriella Montanari sembrano placarsi finalmente in quel registro tragicomico che caratterizzerà in effetti l’intera ultima fase del suo avvincente work in progress.
Giuseppe Martella
Scritture critiche: Gabriella Montanari e il teatro dell'io
Reviewed by Ilaria Cino
on
dicembre 19, 2019
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