Scritture critiche: Sulla poesia di M. Calandrone. Il giardino della gioia e dintorni: Il testo

Foto di Dino Ignani

La prima parte del testo, “Io sono gli altri”, funge da prologo e da dichiarazione di intenti, con la sua insistenza sul concetto di “compassione” come identificazione-alienazione del sé nell’altro. A partire dagli scarti delle catene di montaggio della nostra produzione industriale, dagli “impasti pesanti” e dai “resti animali” (7), dalla “respirazione profonda” dei “nessi della materia” (8), la prima sezione funge da anteprima, da prologo infero all’intera silloge. Si osserva, come ho già accennato, l’artificio della datazione, che segnava come il battito cardiaco delle raccolte precedenti: ora già dall’inizio si fa irregolare, come se il cuore dell’io poetico entrasse in fibrillazione per il thaumaston, la meraviglia, lo stupore e la gioia, certo, ma anche il terrore, l’angoscia, il trauma (thauma, thaomai) per la contemplazione dello spettacolo della nuda vita, di tutto ciò che “prima di essere nome, era pura bellezza” (10), nella varietà delle sue forme, nella crudeltà del suo divenire. Gli altri di cui nel titolo, devono in prima istanza infatti intendersi come il molteplice materiale della terra prima ancora del suo farsi mondo. Che poi man mano prende una varietà di forme tra essenza e apparenza, corpo e ombra, cosa e parola. Inizia così il dialogo sul dis/amore come principio e mancanza ontologica. “Volumetrie alla piena luce” (9) e “piramidi di azione” (10), si incontrano in un intreccio fantascientifico. Sono (come i cinque solidi regolari nel Timeo platonico), gli éide, gli elementi semplici, le figure geometriche che presiedono dall'interno alla composizione di un luogo, alla recinzione problematica di questo giardino in cui la finitudine dell’esserci viene esposta come principio della colpa. In questo eden rovesciato, dove il “laminato plastico” è in attesa di un nome, l'atto del battesimo di ciascuna cosa presumibilmente non toccherà più agli umani. Toccherà loro invece sempre il compito improbo di riconoscere l’altro da sé nella sua apocalittica nudità, “nel caglio incandescente delle nuvole”, (11) nell’orizzonte livido e infuocato della catastrofe ambientale che ci attende, quando diverremo tutti esuli, lupi e angeli dell’Apocalisse. Già si delinea così la spirale di inizio e fine della storia profonda, come elemento strutturale dell’opera e come sfondo del dramma evolutivo che ivi si rappresenta.   
La seconda parte, “Giardino della gioia”, ha invece una funzione di raccordo con Serie Fossile, là dove si cantava l’incontro traumatico d’amore, momento inaugurale della Vita Nova, e pertanto con l’intero impianto ideale in cui Il Giardino della gioia si inserisce e giustifica. Formalmente siamo di fronte a una serie di brevi liriche (riprese appunto di altrettanti passaggi e motivi di Serie Fossile), tranches de vie senza titolo, possibili scenografie dell’esserci stati o esercizi di risemantizzazione di tempi e persone (storiche e verbali) che tornano infatti ora come sgranati e ricomposti in nuovi intagli. Semi e memi di quell’evento inaugurale d’amore (spro-fondato oramai nella memoria collettiva) che regge l’impianto di tutta una stilnovistica ricerca del senso della vita nell’esercizio del linguaggio che, come ho cercato di dimostrare altrove in precedenza, costituisce il fulcro di quest’ultima triade poetica di Calandrone e dunque anche la chiave per comprendere la sua terza, ultima cantica. Di cui questa seconda parte si può considerare come un esercizio di anamnesi, una ripresa ermeneutica e un’eco cosmica di quell’originario stato di grazia, che appare ora riassunto e messo in prospettiva, come addomesticato nella forma breve, aerea, regolare del verso che tende a fissare quasi per contrasto la dismisura fra l’evento e la sua traccia. A partire dalla concisa rievocazione di quella esposizione del corpo amato alla luce che si condensava nell’aura e nell’annuncio (echi del Saluto/Salute dello Stil Novo) della Sposa Alba in Serie Fossile: “hai la luce all’altezza del cuore,/sposa alba, fatta d’aria pulita (SF: 71),  e che ora viene ripreso all’inizio del nostro testo: “sfolgoravi alla luce/come acqua gettata sulle braci” (GG: 16) e verrà in seguito sviluppato per contrasto nei pezzi di cronaca nera e di denuncia sociale delle più che umane perversioni di questo Giardino della Gioia.  
Ma il parallelismo con Serie Fossile (Crocetti, 2015, a partire dalla prima lirica, Seme, che già nel titolo ne custodiva il codice genetico) risulta qui sistematico e decisivo nel definire l’ethos dell’ultima cantica, dove ritornano, in diverse tonalità, temi e accordi della prima: “tutta la vita è stata un esercizio per tornare/al tuo corpo//caldo come la terra”, “profumavi di vino e di spiga matura, di casa/con la finestra aperta sulla collina arata/” (GG: 15) che riecheggia “hai una debolezza di spiga,/muscoli di cavalla, un’arsura/di sabbia calpestata/nella spina dorsale/e un solco di aratura” (SF: 13). O ancora: “sfolgoravi alla luce …riconosco dal passo l’animale/che è stato vivo e non ha più riparo…la terra era un’estensione della tua carne umana” (GG 16) che riprende “hai fatto di me/il tuo favo di luce…una costellazione di api ruota sul tiglio/con saggezza inumana, un vorticare di intelligenze non si stacca/dall’albero del miele” (SF: 15). E si consideri anche l’appassionato invito dell’amante in Serie Fossile, dove già compare il tema dell’esposizione alla luce ora rievocato nell’ultima silloge: “vieni/nel mese magico di giugno/dura e crescente come cardo mariano/qui nel rogo della materia esposta al principio chiarificatore del sole.” (SF: 59) che diviene ora “in ginocchio hai la tempra del tiglio/…io sono cenere che canta il tuo nome/il corpo nudo, il corpo umano….i nostri corpi hanno retto al calore/della fusione/ora che siamo esposti/alla felicità” (GG: 22-3) o ancora “quando ti esponi sei la piena estate/con la sua gloria di alberi maturi/passo la mano sul tuo corpo asciutto…la tua schiena divisa/da un solco di aratura/arde al centro del prato” (GG: 24). 
E infine si consideri il motivo della promessa e della dedizione che risulta centrale in tutte e tre le cantiche, costituendone il filo di raccordo, la stessa ragion d’essere de IL Bene Morale, cioè della “costruzione di un sistema d’amore”: “io ti custodirò fino alla fine del mondo” (GG: 21) che ribadisce la promessa che concludeva Serie Fossile: “verrai nutrita a lungo, avanti/nel tempo della vita, dai frutti/di un melo preistorico. in un futuro aprile” (SF: 127). Si potrebbero elencare ancora altre corrispondenze ma credo che tanto possa bastare a chiarimento dell’ethos (tono e impegno) prevalentemente parodico del Giardino della Gioia, vero e proprio controcanto ironico delle alle due sillogi precedenti, in questa troppo umana commedia. O se si preferisce, sviluppando l’analogia musicale, la ripresa e risoluzione in tonalità minore (dolente e satirica) di una complessa sinfonia del dis/amore cosmico di cui le altre due raccolte rappresentavano l’esposizione e lo sviluppo.  
La terza parte, “Intelletto d’amore”, costituisce una anatomia di tale dis/amore, in un distante controcanto con la prima messa a punto della teoria stilnovistica dell’Amore nella Vita Nova di Dante. Solo dalla anamnesi, alleggerita e distanziata nel tempo, dell'impatto del dono d’amore si può passare infatti in un secondo tempo ad averne quella rara intelligenza “che non è cosa da parlarne altrui” (in esergo) e poi forse a ricavarne un ethos, uno stile di vita, un “sistema di amore”: è ciò che Calandrone ha già fatto in parte ne Il bene Morale e che si appresta ora a concludere in questo suo finale controcanto, dove i sentimenti dell’amore e della gioia vengono presentati in tutta la loro ambivalenza, cioè nel loro legame costitutivo con l’ossessione e col vitalismo da un lato, con l’apatia e col cinismo dall’altro, in prospettiva sia antropologica che biopsichica. L’amore vi appare infatti come “espianto di organi vivi” e come ciò che “modifica irrimediabilmente la materia perché coagula le sostanze sottili che normalmente ruotano sopra la nostra testa” (38), rendendoci così da un lato “superiori alla nostra statura” (38), ma nel contempo più instabili e fragili nella lotta per la vita, perché pretende “la distruzione dell’io, ovvero la perdita di sé nell'altro”. (33) Sicché il dantesco “intelletto d'amore” appare ora trasposto nel linguaggio della biologia evolutiva e della cosmologia moderne, e “l'amor che muove il Sole e l'altre stelle” finisce per non somigliare più affatto all’aristotelico e tomistico soggetto sostanza, motore immobile dell'universo, quanto piuttosto al fenotipo darwiniano, esposto alle variazioni casuali e alla selezione per adattamento. Nel percorso di chiarificazione progressiva della propria dizione poetica, intrapreso da Calandrone almeno da una decina d’anni (La vita Chiara), in quella che si può considerare una trasposizione dello stilnovismo sub specie temporis nostri, la concezione dell’amore qui espressa ci pare però significativamente affine a quella di Cavalcanti piuttosto che a quella di Dante. 
C'è in effetti in tutto l'impianto della Divina Commedia, e nel cuore del tomismo che la regge, una profonda contraddizione fra il soggetto-sostanza aristotelico, principio di pienezza, e l’idea platonica dell'amore come “demone ambiguo”, figlio della indigenza e della abbondanza (Poros e Penia) che lo spingono fuori di sé verso l'altro, per carenza o per eccesso. Questa antitesi trova riscontro nell’altra, costitutiva di tutto il pensiero occidentale, fra l’idea platonica del “bene che è bello” (il kalokagathos greco) che regge e schiude il mondo delle idee, e quella aristotelica della soggetto-sostanza, insondabile, immobile motore dell’universo, fondamento di ogni predic/azione. Questa tensione attraversa tutta la commedia umana e divina dell'occidente e del suo infinito tramontare. In poesia, prima ancora che la Divina Commedia, essa (nella distanza tra Dante e Cavalcanti) segna la nascita dello Stil Nuovo e dunque i destini della moderna poesia europea. Ne costituisce il dialogismo interno di fondo e, in chiave evolutiva, la prima possibile biforcazione: quella fra identità e differenza, fra presenza e assenza, fra asserzione e domanda, nel cuore del dire. Questa tensione viene messa a fuoco e a frutto, proiettata su misure e scenari variabili, tra macro e microcosmo, in questo testo di Calandrone che, nel rovesciare il topos del giardino, locus amoenus e hortus conclusus, e nell’aprirne i confini, indaga anche tutta la magmatica polivalenza della gioia, in quanto esito della essenziale ambivalenza dell’amore, sospeso fra l’identificazione con l’altro e l’alienazione in esso, nello spazio cosmico, infinitesimo e transfinito, fra l’amante e l’amato. In questa prospettiva culturale, si può leggere l'operazione di Calandrone in quest'ultima terza cantica, conferendole il rilievo che merita e articolandone meglio i dettagli e le fasi. 
La quarta parte, “Tempo reale” è una indagine sulla precarietà dell’esistenza nell’epoca del trionfo dei simulacri (prodotto di transazioni e rimediazioni istantanee), quando la riproduzione tecnica, nella convergenza al digitale di tutti i codici, ha raggiunto l’ordine del simbolo, precludendo ogni distinzione fra originale e copia, e mettendo perciò in questione il senso stesso dell’identità. Si tratta di una carrellata nell’iperrealismo contemporaneo, nella condizione di estraneità, di esilio e disagio esistenziale, nella “miseria di specie” che ci caratterizza. Alcuni profili di questa fenomenologia del disagio risultano memorabili: così “l’esuberanza onesta della carne” (57) di Lucia Galante, madre morta per acqua, o la muta presenza della nonna, pietra angolare della dimora (oikos), novella Estia, muta e senza domande, mentre tutto il mondo e la storia le si rivoltano attorno. Un cuore semplice, un antidoto al disamore. (60) O la figura dell’angelo (il saltatore Marcello Benvenuti) che ha fatto “con il corpo il sogno/eretico del volo” (77) tendendo ancora una volta “l’arco dell’utopia” (78). O lo sfinimento del corpo che torna “all’indistinto delle zolle e degli astri” (79) nel sudario della poesia per i morti nel crollo del ponte Morandi, il 14 agosto del 2018. Come si vede, il realismo dettagliato di queste figure viene sollevato in una dimensione altra, utopica appunto, ripetendo nella prassi poetica quel “sogno eretico del volo” che ne costituisce la condensazione icastica.  
“Le case infinite”, che a me pare una sezione a parte, è invece un reportage del dopoguerra bosniaco e nel contempo una mappa dello sprawl urbano e un resoconto del disagio giovanile nella nostra era postindustriale e postumana. Percorsi, stazioni, dettagli: qui realismo poetico e denuncia politica si fondono perfettamente. Esondazioni, deposizioni, resti messi a nudo, roghi di plastica, (90) una apocalisse senza redenzione. Sono cronache di una distopia immanente, un itinerario da un fronte di guerra aperto, labile, ubiquo: file di “case infinite/non finite” (92) che sono altrettanti indici surreali della espropriazione di ogni Heimat (di ogni dimora) e del trionfo planetario dello Unheimlich, dell’inquietante, dello spaesamento dell’esserci nella guerriglia quotidiana tra i poveri del villaggio globale. Nel circuito iperreale delle merci, dove “il vento gira, afferra da ogni parte” (92) si consuma la deterritorializzazione del bios, lo sfinimento di ogni nicchia ecologica e di tutto ciò che è casa. Tutta la fenomenologia dello scisma che ci portiamo dentro: la guerra intestina, il canto della maldicenza e della maledizione sulla terra comune (93), l'abbandono di case e di ruderi di uomini “come lacrime cadute/dalle ciglia del nulla.” (94) Tutta l’umana miseria che si rispecchia nella “gloria delle cose non finite”. (95) In un tremendo contrappunto fra le parole e le cose questo terribile Gloria intonato in chiave di Requiem ci introduce già al rovesciamento del giardino della gioia nella selva del disamore, che si consumerà nella sezione seguente.   
Questa consiste in una serie di scene di ordinaria violenza, rappresentate nell’alternarsi di prosa e versi, di confessioni e meditazioni, di primi piani e campi lunghissimi, fra cronaca nera e pulp fiction: un potente, variegato affresco del disadattamento psicosomatico e ambientale, come esito di una disfunzione pandemica dell’eros. L’amore comporta il dono, il disamore l’espropriazione di sé: questa è forse la prima biforcazione evolutiva nell’infanzia della specie, nel fondo del tempo e del dicibile (127), nella “solitudine dei senza mondo”. (128) Come nella sezione precedente, qui si tratta in sintesi dell’esposizione della vita inerme, dell’essere gettati nell’aperto, negli sconfinati sobborghi delle periferie metropolitane e dell’anima nostra, nell’attualità del tempo reale dove l’orizzonte di attesa si appiattisce su uno spazio di esperienza virtualmente illimitato ma fattualmente ristretto ai circuiti obbligati della promozione delle merci. E’ una indagine socio-antropologica cruda e spassionata, dove un “corpo di cane nero abbandonato” (128) fa da guardiano a questa discesa nell’inferno terrestre quotidiano, che si conclude però in contrappunto con un inno all’amore, con l’immagine paradisiaca della fusione di vita e forma, del fuoco e della rosa: “ogni cosa che ho visto di te, te la restituisco amata/per sempre, per sempre, per sempre”. (129)
La sezione successiva, “Spam Poetry”, si può considerare come una costola della precedente, una proiezione delle sue scene di violenza su uno scenario etologico e biologico: una sorta di riattualizzazione, in prospettiva darwiniana, del conflitto avito fra patrimonio genetico e culturale, fra génos e polis, le leggi del sangue e quelle della città, che fu già uno dei temi centrali della tragedia greca. Non per nulla, la prima scheda di questa ricognizione evoca sarcasticamente lo spietato assassinio di entrambi i genitori da parte di Pietro Maso, il 17 aprile 1991, “senza emozione e senza rimorso” (133) per appropriarsi della propria eredità, come egli stesso spassionatamente confessa. La sezione seguente, “Il puro esistere”, è invece di tenore marcatamente metapoetico poiché, in una prospettiva che potremmo definire di darwinismo letterario, essa mette in scena il ruolo della poesia come processo di esattamento (exaption) evolutivo dell’individuo, cioè di produzione di organi linguistici non immediatamente funzionali al suo ladattamento all’ambiente, ma che nel lungo periodo si dimostrano preziosi per la sopravvivenza della specie: “impara a fare le poesie come si fa il pane./Impara a fare il superfluo. La nostra specie/si è ingegnata nel costruire oggetti/funzionali all’impianto biologico” (149), ma abbiamo bisogno di questa “parola sostanziale regredita/dalla bocca alla mente” che ci conduca nel cuore della “gioia matematica dello spazio” (159), “nel sogno della materia” (161). Un processo che la sezione eponima seguente mette in scena, ribadendo l’intenzione parodistica rispetto alla visione essenzialistica e tolemaica della Divina Commedia, col trasporre il pasoliniano “sogno di una cosa” in questo “sogno della materia”. Dove il concetto chiave mi pare quello della perifericità e dell’esilio, anch'esso funzionale alla commedia rovesciata che qui si consuma, dove, in una prospettiva astrofisica, “ci muoviamo in millenni di materia oscura svelando/[poco], quote misurabili/di conoscenza, per abitare il nostro esilio terrestre”. (163) Questa condizione di esilio assume poi i connotati di una ontologia evenemenziale, di un inno allo stato di emergenza di qualsiasi singolarità, quando si leggono versi come “la crisalide dell’evento/immobile/nella rete di un pomeriggio estivo” (166), oppure “scolla l’iperoggetto dell’evento/dal tessuto moschicida/della cosidetta realtà” (167). Il riconoscimento di tale condizione di esilio dal Giardino risulta dunque il presupposto di ogni possibile epifania dell’esserci e della salvaguardia di un minimo di gioia, benché “stenta” (171), precaria e assolutamente terrestre.      
Le due sezioni finali, dal titolo identico, “Rosso Roma”, benché spostato graficamente nella seconda all’angolo della pagina, costituiscono insieme una ripetizione variata della sezione conclusiva di Serie Fossile che rappresentava in un palinsesto di scenari urbani e astrali, la traccia di conseguenze di un incontro d’atomi e d’amore, come in un esperimento di fisica quantistica, quando si mappava (fra atomi e galassie) lo spazio di diffrazione dell’oggetto-evento, il campo delle sue alternative complementari, all’interno di quella “curvatura spazio-temporale che sulla terra viene detta destino” (SF: 131-32), e si traeva da “questa insiemistica fantascientifica” (ibid.) la quintessenza del dono all’amata e delle sue conseguenze, come di una dedizione che dura oltre la vita. Ora questo scenario cosmico-urbano viene rievocato, tra corpi di immigrati “dispersi/nell’invisibile oltre l’acciaio/di Stazione Tiburtina” (178) e il “rombo della materia prima della materia” (180), per accogliere, in una prospettiva elastica che va dall’astrofisica alla paleontologia e alla cronaca, il miracolo di una singola vita: nella “curva azzurra della provinciale/sulla terra invernale”, “una forma terrestre testarda” che “mastica lentamente/la poca erba ai bordi della strada.” (185) Una vita messa all’angolo, come il titolo dell’ultima sezione, “Rosso Roma” di nuovo, che costituisce una coda e una ripresa ermeneutica della precedente, nonché un giro di vite sui temi dell’alterità e dell’esilio, che ora vengono portati a un’acme nichilistica: “La vita degli altri/è un mistero. Ciascuno/è il ricordo di un altro e i ricordi/quasi mai coincidono.” (191) Ma solo per consegnarci infine, nel breve spazio di qualche verso, nel balbettio degli esuli, un minimo messaggio di speranza: “la giornata è compiuta, se ho lasciato/una riga di bellezza/su un foglio bianco, o in uno sguardo umano.” (192) Una residua, interamente laica, speranza di salvezza, che fa tutt’uno col compito di testimonianza che ha costituito la spina dorsale della commedia umana che, al di là del giardino della gioia, nell’arco delle tre cantiche cui appartiene, Maria Grazia Calandrone ha inscenato per noi, affinché possiamo raccogliere il bastone della testimonianza come esito ultimo di un distante incontro d’amore, della gioia per una grazia condivisa, che duri ancora ben oltre la sua vita. Quella promessa e dedica all’amata, che avevano chiuso Serie Fossile e aperto lo spazio per Il bene Morale, ora si trovano qui rivolte al lettore, smembrate e ricomposte come un corpo sacrificale, disseminate nella terra che ancora ci ospita, come parola divenuta e incarnata (logos egeneto), parola autenticamente poetica, interpellanza in attesa di una sempre nuova risposta.  

Giuseppe Martella

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Scritture critiche: Sulla poesia di M. Calandrone. Il giardino della gioia e dintorni: Il testo Scritture critiche: Sulla poesia di M. Calandrone. Il giardino della gioia e dintorni: Il testo Reviewed by Ilaria Cino on gennaio 29, 2020 Rating: 5

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