Scritture critiche: Sulla poesia di M. Calandrone. Il giardino della gioia e dintorni : Etimologie della gioia

Foto di Dino Ignani

Nel corso della lettura de Il giardino della gioia (Mondadori 2019), si dovrebbe afferrare gradatamente tutta la valenza ironica o addirittura antifrastica del titolo. Poi, giunti alla fine del libro, dovrebbe anche risultare chiaro che il genere cui appartiene questo testo è la satira. Non certo perché il suo dettato sia costantemente o palesemente satirico. Non già dunque nel senso corrente di quel genere che ha i suoi modelli letterari eminenti nella satira latina (da Orazio a Giovenale) e in quella inglese del Settecento (da Pope a Swift) nelle loro varie tonalità, dallo humour al sarcasmo, in versi e in prosa. E bensì in quello etimologicamente originario di satura lanx (il vassoio traboccante dei più svariati doni agli dei), inaugurato dal poeta filosofo greco Menippo da Gadara, praticato a Roma da Ennio e da Varrone, e definito appunto come satira menippea dall’autorevole critico americano Northrop Frye e da lui annoverato come uno dei modi fondamentali (accanto al novel, al romance e alla confessione) della composizione letteraria. Nelle sue varie declinazioni esso tocca la parodia, il pastiche e il carnevale, sfociando infine nella denuncia morale e politica. Per semplificare, diciamo che qui l’intenzione satirica agisce olisticamente e che dunque può cogliersi solo in una prospettiva macro piuttosto che microtestuale – consistendo proprio nella eterogeneità, frizione e addirittura discrasia fra le sue singole parti. Della satira menippea, il nostro testo mostra infatti alcuni tratti salienti: l’alternarsi di prosa e versi, la marcata polifonia dei registri linguistici, la struttura a più piani (qui biopolitico, paleontologico e cosmologico) della narrazione, e in modo evidente la denuncia civile. Ricordando infine che Northrop Frye ha anche ribattezzato questo genere come “anatomy” mi pare lecito considerare il nostro testo come una anatomia della gioia, sulla falsariga della secentesca Anatomia della malinconia di Robert Burton.

Per quanto riguarda il titolo poi, “Giardino della gioia”, conviene anzitutto prestare attenzione alle aree semantiche dei due termini, ai loro incroci, ai loro accordi più distanti, alle sinonimie che sfumano nelle antinomie, ai chiaroscuri linguistici dell’essere al mondo. Occorre insomma anzitutto far risuonare di nuovo l’ampia gamma dei toni della gioia nel termine italiano che di per sé risulta abbastanza piatto e univoco, scavare nelle sue radici etimologiche intrecciate del giardino, al confine con la boscaglia della nostra cultura. A partire dal termine greco charis che innerva il linguaggio delle lingue romanze nei suoi gangli vitali, si può ascoltare tutta la serie di armonici che va dal dono al destino (charma), passando per l’esperienza del piacere (edoné) e poi della gratitudine e della compassione (charis), della dedizione e della dedica che per altro, come vuole Heidegger, esistenzialmente sfumano nella cura come tratto esistenziale dell’esserci e poi ancora nella preoccupazione (Sorge) e nell’angoscia (Angst) per la sua finitezza e mortalità, e dunque anche per l’impermanenza e l’occasionalità di ogni sentimento, per l’imprevedibilità di ogni incontro decisivo con l’altro e di ogni dono d’amore, che ne sono il risvolto ontologico. Bisogna scavare dunque nell’intrico etimologico, per coglierne la gamma di armonici esistenziali: la risonanza della grazia nella viva tradizione e nel linguaggio. 
La costellazione semantica di charis, si innerva innesta infatti nella tradizione cristiana, fissandosi nel principio etico della carità e sfociando infine nel sommo sacramento della eucharistia, esito ultimo e pacificazione di quella metafisica del dono e della cura che è l’incarnazione del Verbo: transustanziazione e trasfigurazione della troppo umana vittima sacrificale, nonché evocazione di quella svolta cruciale della storia che ci consente di nutrire una sia pur minima speranza salvifica. E qui il senso della charis, in quanto identificazione ed espropriazione reciproca dei complici nell’esperienza d’amore richiama quello del suo complemento, il kairòs, l’attimo traumatico e irripetibile di un evento fatale. 
Il kairòs greco non è il tempo della coscienza né quello degli orologi. Non è durata né successione. E neanche la cesura epocale, l’eternità dell’aiòn. E’ invece ciò che irrompe imprevisto dentro il presente, il frammezzo fra controllo e abbandono, tra azione e passione, nella singola vita. In poesia il suo equivalente è l’interdetto del testo, la pausa del verso che ne custodisce il ritmo e il respiro: la loro reciproca, costitutiva dismisura. O anche è il tratto che lega la parola all’ascolto, la grazia dell’attenzione, dalla cui riuscita anomala dipendono l’incarnazione del verbo e la possibilità di un suo ritorno ermeneuticamente plausibile ed escatologicamente salvifico.
Diciamolo così, rapsodicamente, quest’intrico delle radici della grazia, questo loro allignare ai confini fra il giardino e la macchia, fra il dono e la colpa: e viviamolo nel nostro testo che lo mette in opera, nelle sue dissonanze costitutive, come in una teologia negativa, una mimesi satirica e traboccante della asimmetrie del dono; per minarne la compattezza, aprire il pacco del regalo o il vaso di Pandora, liberandone tutti i mali del mondo, salvaguardando solo il principio della speranza. 
La valenza polisemica e le connotazioni benefiche della charis greca (splendore, bellezza, incanto, dono, favore, gratuità. Si noti anche il verbo chaíro esprime un trasalimento di gioia e Chaire significa “il saluto”, e si pensi all’equazione, per noi qui assolutamente rilevante, del nesso fra saluto e salute nella poesia dello Stil Nuovo, che si situa mirabilmente sulla lunga scia della charis greca) sfumano dunque già nella storia e nel linguaggio ordinario nei loro contrari, lambiscono cioè i confini del giardino edenico che ne sarebbe decorosa dimora e ci proiettano nell’aperto, esponendoci alle vicende della nuda vita. Questa tracimazione e contaminazione della gioia (charà) viene messa a fuoco e frutto in questo testo di Calandrone: esso fa del contrasto fra dentro e fuori, fra chiuso e aperto, uno dei suoi assi strutturali, e dell’esposizione del vivente (individuo e specie, geno e fenotipo) alla variabilità ambientale, il suo tema portante, in un continuo zoom prospettico che va dalla cronaca quotidiana al tempo profondo dell’evoluzione di specie, in una dimensione che è nel contempo biopoetica, cosmologica e ontologica, come abbiamo accennato. Lo straripamento della gioia e l’esposizione del vivente trovano infatti qui il loro correlativo strutturale nella varietà e nella saturazione dei generi e dei registri del discorso, fra prosa e verso, dalla cronaca nera all’elegia d’amore, nella loro giustapposizione reciproca, nelle transizioni e nelle riprese tematiche talora apparentemente immotivate, e insomma nella rapsodicità esibita che sfiora la tecnica del collage. Poiché il senso e il valore del costrutto poetico, come sempre in Calandrone ma qui più che mai vanno misurati in un’ottica lunghissima, non certo sul singolo verso e neppure sul singolo componimento felicemente riuscito. Poiché solo a quest’altezza e profondità di campo, o di risonanza, le anisocronie dell’intreccio, le distonie del dettato, l’intrico di figure aggrovigliate come in una macchia di Rorschach può rendere conto di sé al lettore ed essere redento nell’atto della lettura, cioè restituito all’intera sua valenza di atto di testimonianza che coniuga l’onestà dell’intenzione, l’intensità della compassione e la perizia del dire. In tale prospettiva lunga, che abbraccia per lo meno le due raccolte precedenti, si può comprendere anche che la banalità del male qui esposta è un esito probabilmente obbligato dell’estasi provvisoria di un accidentale incontro d’amore. Qui, nella costellazione congiunta di charis e kairòs, come di quelle due galassie gemelle cantate in Serie fossile, si afferra anche poeticamente il nesso ineludibile fra opportunità e vincolo nel corso di ogni umana interazione. 
“Due parole antiche, pronunciate nella ricchezza semantica dell’antica lingua greca – charis e kairòs -, significano grazia e tempo opportuno. I due termini evocano un’allitterazione, nella rietizione di fonemi tra loro somiglianti, che risuonano ritmati, quasi si trattasse di una formula magica, incantatoria, o di una saggia filastrocca per bambini: charis, kairòs…” (A. Cislaghi, La riuscita della grazia, Academia Edu - https://www.academia.edu/26858621/Charis_Kair%C3%B3s._La_riuscita_della_grazia) Ripetiamoli anche noi come un mantra, all’inizio della nostra lettura: ci apriranno i cancelli di questo giardino e ci condurranno nell’intrico dei suoi sentieri. Consideriamoli, per comodità, come la formula alchemica che tiene insieme l’ipotesto e il macrotesto di quest’opera, proiettandone l’intero spartito nella nostra galassia culturale e promuovendone un’esecuzione in cui l’emancipazione delle dissonanze contenga, mettiamo, la stessa tensione, rilievo e virtù di testimonianza che si possono riscontare nel Mosè e Aronne di Schoemberg.  
In questa prospettiva possiamo considerare dunque il kairòs come l’incommensurabile convenire di tempo, luogo e gesto nel sacrificio della parola (poetica ed evangelica) che si incarna: la misura dell’efficacia della grazia, nella ‘buona novella’ (euangélion), in quel rinnovamento periodico del “dialetto della tribù” che è la funzione base della poesia. E poi, facendo a nostra volta uno zoom ardito nel discorso, possiamo anche intenderlo come la battuta o pausa inattesa nella misura del verso, la trasgressione della sua metrica, l’emergere di una singolarità ritmica nella felicità di una dizione o di un fraseggio. Il kairòs è il tempo di mezzo, l’impercettibile, quell’intervallo decisivo fra battere e levare che segna la pulsazione profonda della parola poetica, eco della pulsione corporea, principio ermetico ed ermeneutico di ogni autentico dire. Il kairòs segna il tempo debito dell’accadere e il nostro debito con esso: nel suo legame illuminante con la costellazione della charis (gioia e dono, cura e dedizione della parola) esso è anche lo snodo tra la funzione vitale del bios e la finzione poetica che ne costituisce l’indispensabile supplemento in chiave evolutiva. 

I temi del giardino, della dimora e dell’eredità da testimoniare (centrali nel nostro testo) si trovavano peraltro già (a partire dal titolo del primo componimento e dall’esergo ad esso apposto) ne La scimmia randagia, opera d’esordio di Maria Grazia Calandrone. “L’orto è dove si nasce - ... io sono straniero e povero. E passerò;/ma nelle tue mani deve restare tutto ciò che un/tempo, se fossi stato più forte, sarebbe potuto/diventare la mia patria.” (Rainer Maria Rilke) Se solo consideriamo questo lontano punto di avvio della sua carriera poetica, possiamo già guadagnare la prospettiva giusta, per apprezzare il senso pieno e il valore di posizione di questa sua ultima prova, Il Giardino della Gioia, come un rovesciamento satirico del topos arcadico ed edenico, nella sua denuncia insistita sulla distruzione odierna di tutto ciò che è Heimat (dimora, patria e habitat), dalle case sventrate della Bosnia al caos fermo delle nostre periferie urbane, fino alla distruzione di ogni nicchia ecologica, nonché nella preminenza dei temi dell’esposizione degli inermi alla violenza della nuda vita, alla deiezione, all’espatrio dell’anima, al solipsismo e nomadismo coatti. E infine possiamo anche percepire il tema portante dell’annuncio (angelos) della grazia, gratitudine e gioia, per una eredità da condividere, per il riscatto po-etico di “ciò che poteva essere e non è stato” (T.S. Eliot, Quattro Quartetti), nell’utopia stilnovistica del dono senza attesa di ricompensa. In tale traiettoria ideale si può considerare, in prospettiva lunga e in piena luce, Il giardino della gioia come un approdo, per quanto provvisorio, di quel progressivo esercizio di chiarificazione del dettato poetico e della funzione di testimonianza come tratto saliente della propria poesia, su cui Calandrone non si stanca mai di insistere, e che implicano una decisione preliminare riguardo al proprio essere al mondo insieme ad altri.
Giuseppe Martella

Scritture critiche: Sulla poesia di M. Calandrone. Il giardino della gioia e dintorni : Etimologie della gioia Scritture critiche: Sulla poesia di M. Calandrone. Il giardino della gioia e dintorni : Etimologie della gioia  Reviewed by Ilaria Cino on gennaio 15, 2020 Rating: 5

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