Scritture critiche: Gabriella Montanari: gli esordi
Avendo iniziato non più giovanissima a pubblicare i suoi versi, Gabriella Montanari ha poi bruciato le tappe e nel giro di pochi anni ha messo insieme una produzione originale e cospicua che ha attratto l’attenzione dei lettori e dei critici. Tuttavia, a quanto mi consta, in tale produzione almeno due aspetti importanti non sono stati sufficientemente notati. Il primo è il rapporto tra scrittura e fotografia, che sussiste effettivamente solo nei suoi ultimi tre libri ma che permea idealmente tutte le sue raccolte, informandone la dialettica tra parole e immagini, e perciò costituendo anche l’orientamento intermediale di fondo delle sue composizioni. Il secondo è una occulta ma continua ricerca formale che non si esercita affatto sulla versificazione, che è libera e varia, spontanea e addirittura torrenziale, ma piuttosto sulle cornici e sulle architetture, si direbbe quasi sugli argini delle varie raccolte. I due aspetti sono peraltro connessi, perché è infatti quest’ultima esigenza di controllo strutturale di una verbalità esuberante, a portare infine la scrittrice-fotografa a far interagire i suoi due linguaggi di elezione, in quella che si potrebbe definire una poetica del fotogramma.
Già nella sua prima raccolta, Oltraggio all’ipocrisia (Lepisma, 2012), si incontrano infatti sorprendenti scorci e carrellate, sagome e tranche de vie, dove lo spaesamento prospettico si sposa con la denuncia civile, stemperandosi poi gradatamente nell’autoironia e nello humour, sullo sfondo di una Parigi in cui gli spettri di Baudelaire riappaiono come filtrati dalla camera oscura del surrealismo e restituiti alla nostra contemporaneità: “i parigini fulminei come meteore da marciapiede…. /Le parigine sono managers/hanno almeno tre figli/e credono in un solo Dio,/…Parigi è una gran puttana/…ti scruta con gli occhi languidi da cagna in calore/… Parigi è fiera dei suoi tanti popoli indifferenti l'uno all'altro/tutti potenziali clienti.” (13)
Prospettive metropolitane e ricordi di infanzia, lo sguardo in macchina e l’ingorgo psichico (i conti aperti con il malessere adolescenziale e il nodo irrisolto con la figura del padre), i lampi percettivi e le associazioni oniriche, si compongono in un unico straripante flusso di vita e di linguaggio. La rabbia e la ribellione costituiscono il principio po-etico di questa scrittura (“sono nera/ma non voglio che passi./Scriverò meglio/scriverò vero: 23) in cui ciascuna lirica contiene una potenziale sceneggiatura. E nella tensione costante fra parola e immagine si esplica la persistente denuncia della solitudine di massa che caratterizza il nostro “Ecco-sistema” pornografico-farmaceutico, con la sua equa, solidale e quotidiana distribuzione di eccitanti e sedativi: “di certo siamo milioni/a masturbarci davanti ad un video porno sullo/schermo del pc…/Esistenze sedate con dosi da cavallo/di compromessi e bromuro.” (58)
Questi pochi esempi possono già dare un’idea del tenore figurale e della tensione enunciativa di una silloge dove, tra denuncia e confessione, si svolge la sarcastica ricognizione del dolore e del fetore della guerriglia urbana, che combina il crudo reportage a la Celine con le pietanze barocche di Rabelais o di Gadda. E sugli scenari parigini si innestano spesso poi i ricordi dell’adolescenza romagnola, in passi che sono a mio parere fra i migliori della raccolta: “Non m'incanti più/con le tue sagre del ranocchio/Vecchioni al festival dell'Unità/e i maiali squarciati per farne ciccioli e sanguinac-/cio a natale” (75). E’ qui che Montanari dà il meglio di sé: quasi avesse bisogno di temperare l’impeto della ribellione e il livore dell’invettiva nella salsa macerata del ricordo, tornando di quando in quando alle radici, alla terra, al concime, per riprendere forza e coerenza nella sua impetuosa, nomadica, intransigente ricerca esistenziale. Questa ripresa-restituzione, o innesto del ricordo infantile nel vissuto attuale sarà una prassi costante anche nelle sue opere successive, un tratto distintivo della sua poetica.
Oltraggio all’ipocrisia tiene fede alla promessa contenuta nel titolo: è una sfida rabbiosa e deliberata che non fa sconti al gioco delle maschere, sia proprie che altrui, prese nel vortice della routine quotidiana che si fa oggi più che mai sorda lotta per la sopravvivenza, in quel Grand Guignol esistenziale che preclude in partenza perfino la cognizione del dolore, la dimensione del tragico e qualsiasi genere di reciproco riconoscimento o catarsi. In questa silloge si trovano delle gemme di fervida inventiva e di sfacciata originalità, ma le singole liriche sono di valore piuttosto disuguale tra loro e il disegno globale dell’opera lascia un po’ a desiderare.
Nella raccolta successiva, Arsenico e nuovi versetti (La Vita Felice, 2013), benché si affidi come prima ai calembour a partire dal titolo, Montanari amplia poi radicalmente sia il proprio scenario (che da Parigi diviene l’universo intero) che il registro verbale, affidato ora all’alternanza strategica di prosa e versi, ma soprattutto sposa in pieno la messa in scena istrionesca e provocatoria del proprio corpo gesticolante, la pantomima dell’esserci, al di qua e al di là della parola. Costante rimane però la sua necessità di ricostruire un profilo autobiografico sufficientemente plausibile, a partire dal problematico rapporto con la figura del proprio padre, che funge da sineddoche di ogni altra radice e alterità, e da catalizzatore di ogni attrazione o repulsione.
La sfrontatezza e la truculenza verbale, la varietà metrica e l’arditezza figurativa, si sposano bene d’altronde con quella disarticolazione del corpo pulsionale o sofferente, che metaforicamente diviene appunto carne del mondo. Si osserva nel complesso insomma una maggiore padronanza dei campi semantici evocati, nell’economia generale di un discorso suggestivo, seducente, spudorato a volte, sempre sospeso fra l’orizzonte onirico e quello realistico. Il titolo della prima sezione in prosa, “Pisciare contro vento”, risulta infatti già di per sé piuttosto esplicito nel manifestare il tenore dell’intero discorso, evidenziando quella che è un’equazione cardine di questa silloge: pisciare=scrivere, scrivere come significazione ed evacuazione nello stesso tempo. Il duplice statuto della traccia, insieme iscrizione intenzionale e deiezione obbligata, che attraversa buona parte della poesia del secondo novecento, viene qui declinato dalla poeta in modo del tutto originale ed esplicito, con una buona dose di autocritica e con un certo innegabile dis/gusto: “Lo stesso sfogo appagante, la soddisfazione di un bisogno impellente. L'espulsione catartica, l'eruzione che riscalda. L'orgoglio di far spiccare il volo a particelle di sé, di lasciarle andare per il mondo. Poi, dopo l'impatto col muro del vento, ritrovarsele sparpagliate sul viso, dalla fronte al mento.” (16) Questo incipit ci introduce dunque a un’arlecchinata cosmica dove il corpo proprio si congiunge senza riserve né pudore con la carne del mondo, con la nuda vita pulsante sotto il brusio delle parole e il fruscio delle carte, al di qua delle forme della convivenza civile e persino del decoro domestico, come capita nella toccante scena finale di un amplesso quasi “rubato” sotto gli occhi dei figli: “son sempre poche le ore per giocare agli amanti,/il fritto di paranza e i battibecchi son digeriti e mi accorgo/che la fessura se ne sta umida, in attesa/loro intanto si fingono pirati,/succhiano ghiaccioli che colano tra le mani,/mentre in me si scioglie l'immagine esemplare/che si addice a una madre.” (116) E dopo, con estremo e circostanziato, commosso e ironico realismo, ecco il benessere che segue al piacere: “Ho tra le scapole la mia treccia di fili ancora neri,/sotto il corpo sudato un letto con le spalle larghe,/l'incoscienza del piacere in cima ai pensieri,/la mia gatta arruffata,/il brusio di una zanzara assetata,/il mio ventre che gli fa festa come al santo patrono,/una televisione accesa, più sguaiata dell'estate/e una colla trasparente tra le tette.” (116)
Nella lirica finale l’amplesso verrà addirittura proiettato a livello cosmico, sotto forma di terremoto che sveglia l’amante che dormiva placidamente, e che poi comicamente le comunicherà di essersi sentito molto scosso ma di non aver patito troppi danni: e su questa nota rassicurante si chiuderà la raccolta, “senza conoscere il seguito, lasciando che “il tempo /con la sua lingua assennata lecchi i/tagli/che ci siamo inferti giocando ai piccoli chirurghi.” (118) Nella sua seconda prova, Montanari, nella tensione mirata fra prosa e versi, nonché fra micro e macrocosmo, perviene a un maggior controllo strutturale e a quella dimensione biopoetica che esplorerà ancora in seguito nel corso della sua ricerca, dove Abbecedario di una ex buona a nulla (Rupe Mutevole, 2015) segna uno stadio ulteriore. Come si legge nell’avvertenza iniziale, un abbecedario può fungere da “promemoria” per una narrazione sfaccettata, verosimile e convincente dell’io poetico. Ma nel caso di Montanari, direi che costituisce soprattutto un proforma, cioè uno schema di composizione: come il pentagramma per la notazione musicale, esso serve a disciplinare e facilitare l’invenzione e la disposizione dei versi, delle liriche e dell’intera silloge. L’autrice infatti ci confessa di averci messo dentro “qualche rompicapo esistenziale che spera di non risolvere mai” e “alcuni luoghi che non si decide ad abitare o ad abbandonare per sempre.” (16) A prima vista, questo può anche sembrare un espediente di comodo alquanto estrinseco, oppure una estrema ratio cui far ricorso, come la poeta d’altronde causticamente ci avverte, quando “ormai non si sa più cosa cazzo scrivere.” (16) Ma in effetti si dimostra poi perfettamente adatto a incanalare l’immaginazione umorale, esondante e bizzarra di Montanari e ad aiutare la sua memoria a focalizzarsi su alcuni suoi incroci fecondi, disciplinandone pertanto la grande varietà tematica e l’inventiva rigogliosa ma indocile e un po’disordinata. Mitigando cioè e modulando anche i toni, i registri e le sfumature del suo discorso, senza scalfirne peraltro l’originalità e il vigore, a tutto vantaggio dell’orchestrazione di insieme.
Il linguaggio inclusivo ed esplosivo di Montanari trova così una matrice canonica, da un lato, e dall’altro come per biologica compensazione si radica nel suo luogo di origine, nel primo orizzonte della propria gestazione: il teatro della sua infanzia, la Romagna, la riviera adriatica. In molti passi dell’Abbecedario sembra insomma che la poesia di Montanari pervenga a un felice incontro fra le parole e le cose, come se l’invenzione schizomorfa e nomadica dell’autrice giungesse infine ad accasarsi. Assistiamo infatti qui a quello che, nei termini di Deleuze, si può chiamare un processo di riterritorializzazione del soggetto parlante: e ciò avviene con l’aiuto del dispositivo più semplice e adatto (quello dell’abbecedario) a ricomporre i luoghi dell’infanzia e dell’adolescenza, l’irrequietezza biologica e l’invenzione poetica, che pertanto strategicamente e reciprocamente si disciplinano e si potenziano. Come il mitico Anteo, Montanari, sembra proprio trarre tutta la propria straripante e magmatica energia verbale dal contatto con la terra madre, ancorché reietta e contaminata da una sorta di oscuro peccato originale.
Questo incremento nella pregnanza semantica, nonché nella mira e nella misura del verso, si può cogliere già in partenza, alla lettera A e dalla prima lirica “L’adriatico”: “guardati,/razza di mare circonciso/…sei il lavandino d’oriente/un catino – sudicio d’accenti e d’assorbenti interni” /…mi hai cresciuta d’onde e sfamata d’albe,/ti ho nuotato e scopato dentro,/…nei pizzicori invernali te ne stai mogio/come un randagio preso a calci nel muso/….i marosi s’infrangono in mazurke,/– balere di liscio per sgombri e sarde” (17) Ancora una volta, ci troviamo di fronte a una micro sceneggiatura per una storia possibile: un quadretto di genere con la dinamite dentro e un esempio che può valere per tutti i componimenti restanti. La cornice è data dalle lettere dell’alfabeto e di dinamite Montanari ne dispone a volontà: ma ora più controllata e compatta è la metrica, misurata la verve, accresciuta la maestria del disegno e del colore: la modulazione, il timbro, la resa d’atmosfera.
A volte ci imbattiamo persino in inattesi modelli di concisione testuale e di resa a calligramma, come per esempio capita, alla lettera E, per la lirica Environnement (ambiente), dove si assiste a una pregevole stilizzazione ironica (in forma grafica di farfalla) della catastrofe ecologica: “la nostra cornice terrestre se ne va in fumo, lasciando ricordi e pennellate di vita verde nelle tele di Ligabue .… Resteranno forse i più resistenti/o gli egoisti cronici/e i recidivi cinici/o gli ignari/con orecchie e borsellino da mercante.” (43) E si tratta di una stringatezza davvero sorprendente nella piena verbale con cui spesso la poeta ci investe, in un diagramma di flusso dove comunque restano bandite le lettere maiuscole e manca volutamente la punteggiatura, in un eloquio colorito e straripante, oltraggioso e oltranzista, in cui però, come si è accennato, si avverte ora una nuova capacità di modulazione, di smorzamento dei toni e di controllo dei registri, una nuova maestria armonica che consente per esempio di ricreare all’occorrenza atmosfere intime, nostalgiche, sommessamente familiari, come capita infine alla lettera Z e alla voce “Zietta” (quella materna, il surrogato di una mancanza): “erano cuscini di pianto quelle sue borse sotto gli occhi/lasciate lì a gonfiarsi come pance annegate/che tornano a galla, dopo i fondali/dentro c’erano il fischio dell’asma e le ore in piedi a/stirare/la nostalgia viola che macchia il viso e lo snatura/peli di gatto rosa, rose potate e patate a rosolare”. (170) Montanari è ora definitivamente in grado di esprimere anche tinte sfumate e quasi crepuscolari - di quel crepuscolarismo terminale e demotico che si addice ai tempi nostri e a una lettera Z che pare segnare perfino la vicenda della nostra specie umana.
Giuseppe Martella
Scritture critiche: Gabriella Montanari: gli esordi
Reviewed by Ilaria Cino
on
novembre 14, 2019
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Un buon saggio per un'ottima poetessa
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