Intervista a Michele Nigro di Ilaria Cino


Michele Nigro, nato nel 1971 in provincia di Napoli, vive a Battipaglia (Sa) dal 1978. Si diletta nella scrittura di racconti, poesie, brevi saggi, articoli per giornali e riviste… Ha diretto la rivista letteraria “Nugae – scritti autografi” fino al 2009. Ha partecipato in passato a numerosi concorsi letterari ed è presente con suoi scritti in antologie e periodici. Nel 2016 è uscita la sua prima raccolta poetica – che ama definire “raccolta di formazione” – intitolata “Nessuno nasce pulito” (edizioni nugae 2.0). Ha pubblicato“Esperimenti”, raccolta di racconti; il mini-saggio “La bistecca di Matrix”; nel 2013 la prima edizione del racconto lungo “Call Center”, nel 2018 la seconda edizione “Call Center – reloaded” e la raccolta “Poesie minori. Pensieri minimi”. Nel 2019, per i tipi delle Edizioni Kolibris, viene pubblicata la raccolta di poesie intitolata “Pomeriggi perduti”(collana di poesia italiana contemporanea “Chiara”), che è anche il nome del suo blog.





Carbonio


Dolori grezzi di puro carbonio
compressi nel tempo
diverranno preziosi diamanti d'anima
in parole e nuovi amabili gesti,
non mi avranno ancora
le abbronzate logiche mediterranee
e i rituali connubi dei vincenti.

Raccontare vorrei di sera
dinnanzi a fuochi spenti
le occulte storie infedeli e
avventure carnali senza eredi,
ma il silenzio che tutto ricorda
m'insegna mute saggezza.

Michele Nigro
(da "Pomeriggi perduti", Kolibris 2019)
***


Come è avvenuto il suo incontro con la poesia?

Se per poesia intendiamo un modo trasversale di leggere la realtà e una sensibilità in grado di soffermarsi su sfumature per molti irrilevanti ma capaci di unire il visibile all’invisibile, il detto al non dicibile, allora credo che questo incontro sia avvenuto ancor prima di cominciare a leggere i poeti a scuola o di mettere su carta i primordiali abbozzi di pensiero poetico. Il primo incontro materiale, storico, se così vogliamo dire, è avvenuto sui banchi di scuola, per dovere, per portare a casa un buon voto, oppure tramite qualche libro ricevuto in regalo o acquistato perché incuriosito da un verso catturato nell’aria, o dopo aver visto un film significativo che mi ha aperto un mondo: in seguito si ritorna su certi versi e su quei poeti che hanno seminato in noi, ma questo secondo incontro avviene in segreto, autonomamente, in piena libertà e forse con un po’ più di maturità. L’incontro con la poesia in qualità di autore, invece, è una pura conseguenza, è lo sbocco naturale di un processo lunghissimo, non letterario ma umano, ancora in atto.

Ci sono voci del passato o del presente che sente più vicine alla sua poetica?

Le voci che sento più vicine alla mia poetica, contrariamente a quanto si possa pensare, non appartengono a poeti: sarebbe banale, scontato, troppo facile. Mi interessano le voci di persone comuni scomparse, quelle dei miei ricordi personali, voci non necessariamente letterarie. Se è avvenuto questo avvicinamento con voci di autori “famosi”, è perché la loro lettura è coincisa con un momento particolare della mia esistenza: non posso non ricordare il primo Walt Whitman (che intravedo in una delle domande successive!) letto a Napoli decenni fa, o la presenza di Edgar Lee Masters quando l’ho letto per la prima volta in Lucania, in un paesino i cui abitanti ricordano indirettamente quelli immortalati negli epitaffi di Spoon River… Non ci sono voci prevalenti: ogni poeta, se letto in un certo modo, lascia tracce più o meno indelebili.

Che peso ha avuto la lettura sulla sua poetica e quali letture l’hanno segnata di più?

Leggere è molto più importante di scrivere. È una scoperta ancora in atto: sono moltissimi gli autori che m’accompagnano, ma è una compagnia destinata a crescere nel tempo. Da Rocco Scotellaro a Carlo Levi (quest’ultimo ricordato prevalentemente per il romanzo che lo rese celebre e poco per la sua poesia), da Pavese a Salinas, da Neruda a Ritsos, da Gatto a Rilke, da Orazio a Shakespeare… Come dicevo, ognuno lascia qualcosa, un semino, una singola parola o un verso intero: ci segnano non tanto i significati, le nostre effimere interpretazioni influenzate da una certa convenzionalità, quanto piuttosto l’azione inconscia dei significanti.

In una delle sue celebri poesie W. Whitman alla fatidica domanda sul perché si scrivono versi risponde con la necessità della poesia in quanto elemento di vita e di identità. Cosa ne pensa in proposito? E quale significato attribuisce al fare poesia oggi?

Come epigrafe per la mia ultima raccolta “Pomeriggi perduti” (ed. Kolibris, 2019) ho scelto proprio questo verso piuttosto conosciuto di Whitman a cui credo Lei si stia riferendo (la poesia è O me! O vita! dalla raccolta “Foglie d’erba”). Nel marasma esistenziale, causato dagli altri, dagli eventi o semplicemente dal movimento affannato di noi povere molecole immerse nella tempesta del mondo e dell’esserci in questo spettacolo chiamato “vita” (che continuerebbe anche senza di noi), quando i flutti non ci danno tregua e ci sballottano da una parte all’altra, occorre a un certo punto dare un senso a questo caos, dargli un nome, definirlo, contribuirvi con un verso, riempirlo di contenuto. Non tanto per salvarsi, per non perdersi tra la folla o per accaparrarsi una sciocca eternità, ma soprattutto per confermare a se stessi un’identità, un modo di stare al mondo, per dare un significato al nostro vissuto (soprattutto quello invisibile), per ribadire il possesso di un territorio interiore che niente e nessuno può occupare. Identità è anche ritornare lì dove, geograficamente parlando, il tuo cognome è ricordato dai vecchi e risuona di senso. La poesia può farci ritornare.
Tempo fa, rispondendo alla domanda di un’altra intervista, all’indomani della pubblicazione della mia prima raccolta “Nessuno nasce pulito” (ed. nugae 2.0, 2016), adoperai con un certo istinto da strada la seguente frase: <<… Queste sono le mie conquiste umane, le mie esperienze e queste parole sono la mia terra!…>>. Più che un manifesto personale, una dichiarazione di guerra…Nutrire l’anima, cercare il buono del nostro stare qui, fissare il passaggio dell’uomo sulla terra: non credo che il fare poesia oggi abbia scopi differenti da quelli di altri tempi, al di là di inutili sperimentalismi fini a se stessi. Cambiano le forme, passano le epoche, ma l’animo umano è sempre lo stesso: questa cosa mi sconforta e mi rassicura al contempo.

Nel corso degli anni è mai giunto ad una definizione seppur allegorica della poesia?

Fortunatamente non del tutto! La poesia è un meraviglioso e indefinibile mistero, lasciamo che resti tale non vivisezionandolo eccessivamente. Nel tempo, però, grazie soprattutto a un’attività esperienziale, ho potuto conoscere aspetti ricorrenti, “regole”, approdare a definizioni personali che in seguito sono state convalidate da letture saggistiche, da confronti con altri poeti… Si naviga a vista! Ma con un minimo di bussola. Mi piace pensare la poesia come un ponte linguistico tra visibile e invisibile, tra le parole e l’indicibile, tra il nostro essere finiti e l’infinito.

Lei ha definito la sua precedente raccolta “Nessuno nasce pulito” come raccolta di formazione, cosa ci dice invece di “Pomeriggi perduti”, ritiene di aver raggiunto una maturità stilistica e comunicativa?

Alcuni lettori mi hanno rivelato, passando dalla prima alla seconda raccolta, di aver notato una certa evoluzione verso la sobrietà, l’asciuttezza e una certa ermeticità. Se in “Nessuno…” ero più didascalico e propenso allo spiegarmi, in “Pomeriggi…” c’è un ridimensionamento di alcune caratteristiche anche “spaziali” riguardanti la mia poesia. Evoluzioni che ovviamente ho notato, tuttavia non parlerei di raggiunta maturità stilistica e comunicativa. Credo, questo sì, in una riconoscibilità del mio stile, della mia ricerca poetica, dei contenuti trattati, anche di un certo lessico che ricorre più frequentemente in alcuni ambiti. Non credo che stravolgerò nei prossimi tempi il mio modo di fare poesia: una certa impronta sarà sempre presente e riconoscibile, ma come ho detto anche in altre interviste credo altresì fortemente in un’evoluzione neurolinguistica del poeta dipendente da cambiamenti soggettivi, persino neurofisiologici, dalle letture e dalle esperienze di vita, dallo studio e dalla presa di coscienza di nuove forme sperimentali o provenienti dal passato che potrebbero a un certo punto influenzare la formazione del verso. Si tratta di fattori non preventivabili. E va bene così!

Quali sono le sue speranze e progetti per il futuro?

Non mi nutro di speranze, sono un “disperante”; certe ricerche bisogna volerle, desiderarle, costruirle, modellarle, al netto degli immancabili fattori fortunosi. Se un’idea spinge, è un crimine non assecondarla, così come bisogna imparare a lasciar andare passioni e persone. Ho vari progetti in mente: alcune raccolte di poesie, diverse tra loro per tipo di impostazione. Ma non escludo di realizzare, in uno di questi progetti per ora solo abbozzati mentalmente, un’integrazione, come mi è stato suggerito anche da persone vicine e attente al mio lavoro, tra poesia e prosa in una raccolta avente, stavolta, un fil rouge dichiarato già nel titolo. Vorrei cominciare ad abbandonare il modello delle raccolte-contenitori di epoche e puntare su gruppuscoli di liriche coerenti tra loro per scelta tematica o in base ad altri parametri. È bello progettare, è quello il momento veramente creativo: tutto il resto è solo un incidente, una serie di azioni doverose nei confronti del prodotto. Il book marketing, le noiose presentazioni e i reading, le statistiche sulle vendite, l’elemosinare recensioni, il dover schivare i detrattori e gli avvoltoi del mondo culturale… Tutto questo fa parte di un utile gioco secondario, ma la poiesis è proprio un’altra cosa!

Ilaria Cino


Intervista a Michele Nigro di Ilaria Cino Intervista a Michele Nigro di Ilaria Cino Reviewed by Ilaria Cino on ottobre 11, 2019 Rating: 5

1 commento

  1. Grazie per le domande che mi hanno stimolato (spero con risposte altrettanto interessanti) e per l'ospitalità in queste "stanze"...

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